Sopra-luoghi Gli Artisti della Casa degli Artisti, nel parco di Villa La Scagliola – Note per una storia di Laura Vecere


Estratto dal testo di Laura Vecere scritto in occasione della mostra Sopra-luoghi presso Villa La Scagliola, a Verbania


Sopra-luoghi
Gli Artisti della Casa degli Artisti, nel parco di Villa La Scagliola – Note per una storia
di Laura Vecere


Ogni evento nasce dall’ intreccio di altri eventi necessari/fortuiti che lo determinano e, quando generato, a sua volta getta luce sul senso della storia che lo ha prodotto, al pari di una scena finale in un montaggio cinematografico o della causa del risveglio verso cui corre rovesciata la sequenza temporale del sogno. (Florenskij) Alla sua base c’è sempre un gioco sottile di equilibrio tra caso e necessità che diviene leggibile, solo alla fine, come trama coerente che lo sostiene. In modo analogo la scena artistica che si dà in Sopra-luoghi, nel parco di Villa la Scagliola a Verbania-Pallanza, si pone alla confluenza di più storie antecedenti che in essa risultano reciprocamente e necessariamente vincolate.
Nel 1976 nel Museo del Paesaggio a Verbania-Pallanza una mostra e un libro, Aptico, marcavano un passaggio artistico-teorico di importanza rilevante sia per contenuti storici che per orientamenti artistici. Nato da un dialogo serrato tra gli artisti Fabro, Nagasawa, Trotta e la storica dell’arte De Sanna, Aptico era concepito come un unico e ininterrotto discorso sulla “scultura” sostenuto da una fitta rete di dichiarazioni di artisti di tutti i tempi. Il compito di Aptico era quello di porre il termine “scultura” in uno spazio di massima ampiezza interpretativa, dalle origini al presente e, allo stesso tempo, prendere le distanze da definizioni che la chiudevano entro gli steccati di un recinto disciplinare. L’attenzione storico critica era portata sulla messa in evidenza dei lasciti artistici e quindi sulla costruzione di catene di genealogie, più che sulle scuole e le correnti. Il senso della scultura messo in risonanza in Aptico trovava rispondenza in questioni quali: materia, gravità, intimità, eros, eidos, temi su cui erano chiamati a interloquire, insieme agli artisti presenti, Fidia, Bernini, Manzoni, Donatello, Medardo Rosso, Canova, Fontana.

Nel giro di alcuni anni, Fabro, Nagawa, De Sanna davano vita all’esperienza della Casa degli Artisti a Milano, uno spazio disponibile per l’arte e la sua trasmissione, in cui, nel corso del tempo, sono transitati pensieri, discussioni, mostre, azioni, pubblicazioni, idee e, soprattutto, artisti.
La Casa, al suo nascere, si auto-delineava come spazio fondato sulla dinamica dialogica maestro/allievo e Regole d’Arte, pubblicato nel 1980 da Luciano Fabro, ne rappresenta bene l’incipit. In Regole d’arte come in Aptico si coglie in modo chiaro l’eco dei dialoghi socratici, essendo entrambi gli scritti percorsi da un clima simile a quello espresso da Platone nel Fedro e nel Simposio dove l’intreccio estetico-erotico appare con più nitore. Ma laddove la possessione erotica segna in Platone lo spartiacque per una decisa esclusione dell’attività artistica dal piano della conoscenza ultima, Aptico e Regole, al contrario, portano l’eros al centro dell’attività artistica e riorientano felicemente l’intero processo conoscitivo dell’arte, al pari del discorso filosofico, verso la conoscenza diretta dell’eidos e non l’eidolon. (qui ricucire)

Il giardino architettonico, nella parte a monte di Villa la Scaglio la, (scelta come luogo della esposizione) ideato e realizzato da Adolfo Wildt nel 1907 per Hermann Friedrich Messtorff, appare come l’espandersi di un sogno classico scaturito dal corpo romantico/neogotico della villa e del giardino a valle, realizzato insieme a quella parte del parco nel 1880 per i precedenti proprietari dall’architetto Augusto Guidini. L’intero complesso, sebbene collegato da due sottopassi sotterranei, è fisicamente diviso in due dall’attraversamento della strada costiera. L’intervento di Wildt risolve in unità la separazione collegando spazialmente e simbolicamente il tutto a partire dal giardino sul lago dove, dal pernio dell’erma di Omero, volta verso la fontana con le Maschere dei Coniugi, 1 sembra sprigionarsi il corpo della visione narrata nel giardino superiore. Attraversati i bui passaggi sotterranei di connessione tra la villa e il resto del parco, si entra in un assetto spazio-temporale del tutto autonomo rispetto al primo. La figura dell’eroe morente, copia di Wildt del Galata, posta in asse prospettico con la terrazza prospiciente il lago, chiude e apre un percorso architettonico-scultoreo-ambientale-simbolico. Giunti sulla terrazza si svela, inaspettata, l’ascesa verso il mondo degli dei. Lo spazio è totalmente occupato da una grande scala che sale verso il monte e prepara, con l’inquadratura a mezza altezza di una coppia di gladiatori, la visione in massima elevazione al centro di un’esedra della Venere di Milo volta verso l’acqua del lago e, idealmente, verso il Galata.
L’intera opera è concepita come una totalità tra architettura, scultura e sistemazione botanica, laddove le copie classiche, tutte in marmo rosa di Candoglia, ora grigie ma una volta dotate di “pelle” levigata e trasparente, dovevano rendere ancora più intensa la suggestione di corpi in movimento e accentuare il clima metafisico di un mondo classico guardato da un’inclinazione aderente ad una visione culturale monacense-böklinana.

Soffermarsi su questa vicenda ha lo scopo di sottolineare il sentimento di Wildt verso l’antico, non solo in relazione alla circostanza dell’ esecuzione delle copie del giardino2 , quanto piuttosto in relazione al cogliere il mondo classico filtrato attraverso l’inquieto risuonare di una nota dionisiaca al di là dell’atarassica indifferenza apollinea, nella stessa direzione della scoperta di una memoria anteriore e della veggenza che collegano il pensiero di Nietzche , Burckhardt, Warburg e che è riassunto mirabilmente da quest’ultimo nella figura della ninfa. La ninfa che induce la possessione, che conferisce il sapere metamorfico, che dona il segreto della veggenza, che collega il mondo superiore degli dei e quello inferiore umano (Calasso). Questo passaggio permette di avanzare una congettura che darebbe ragione del fronteggiarsi paritetico dell’erma del cieco Omero e della fonte con le maschere dei coniugi come due presenze che condividono una medesima radice.


Sopra-luoghi

Come una serie di attributi che trasformano ad ogni addizione il valore del soggetto stratificandosi su di esso, i lavori d’arte, dislocati nello spazio monumentale del giardino della Villa La Scagliola, con semplicità e leggerezza di tocco prendono vita e danno vita ad altri segni preesistenti, nella direzione di una narrazione mai compiuta ma ad ogni tratto ripresa per diramarsi in nuove versioni e sfrangiamenti possibili. Ogni lavoro, sebbene non necessariamente pensato site specific, svela tuttavia adesione al luogo e alla struttura ambientale in virtù di una propria interna costituzione cangiante.
Con il semplice gesto del sovrapporre, gli artisti di Sopra-luoghi hanno situato le loro opere lungo il tracciato wildtiano, dai bui sottopassi di transito alla luminosità ascendente dello scalone, toccando punti sensibili del luogo, risvegliando impronte mnemoniche, sovrapponendo nuove traiettorie di lettura, creando nuovi episodi accessori e, naturalmente, assorbendo il riverbero del percorso classico simbolico del giardino. Nell’insieme si può cogliere in atto quel principio di reciproca interferenza dovuto alla dinamica lavoro-contesto come se, per la durata temporanea della mostra, l’uno divenisse tramite e compimento dell’altro. […]
Proseguendo lungo il sentiero, chiuso sulla sinistra dal Galata, il visitatore è accompagnato verso la sopraelevazione luminosa del terrazzo dal suono basso e continuo scaturito dalla vibrazione di una lastra di ottone iridescente, dalla forma vagamente ellittica, depositata ai piedi di una magnolia. Il dispositivo nascosto, la cassa di un amplificatore, anima la lastra come di un respiro terrestre, sorta di Sagra della Primavera, memoria di un mondo pre-formale. (Orior). […]
I lavori di Sopra-luoghi condividono con l’opera ambientale di Wildt che li accoglie, la radice comune del fare arte, una prassi operativa il cui orizzonte di referenza ultimo è ancora la natura invece che l’universo della socialità che vive nella “sua demoniaca autosufficienza” (Calasso). Ecco perché, anche se in misura diversa, tutti i lavori appaiono permeati dal mobile psichismo dell’acqua, dalla sua identità cangiante, dalla presenza sempre sottesa della ninfa, guardiana delle fonti, induttrice di conoscenza metamorfica che investe le visioni di Omero e quelle che conducono, ad ogni gradino, su su dal vulnerabile e transeunte mondo eroico/umano fino al principio superiore che lo sovrasta e lo governa internamente e che gli antichi figurano nelle seducenti forme della olimpica divinità di Venere.

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