Intervista di Špela Zidar a Stefano Tondo realiozata in occasione della mostra LUCE è OMBRA
ŠZ: Le tue opere sono un dialogo costante con il materiale, trattato non solo come mezzo, ma come soggetto vivo che parla della sua storia, delle sue potenzialità e dei suoi limiti. Da questa ricerca materica si apre un’indagine più ampia che scava nel profondo, nell’immateriale, quasi inconscio e apre davanti a noi l’essenza della nostra intimità.
Per un artista visivo è necessario questo dualismo tra il materiale e immateriale? Cosa significa per te affrontare l’immateriale, quello che si nasconde?
ST: Partiamo dal presupposto che il soggetto della mia ricerca è l’uomo nella sua interezza. Non essendo fatti di sola carne non c’è alternativa al mostrarne anche gli aspetti più nascosti, avendo la presunzione di non indagare gli aspetti contingenti di un singolo individuo o di gruppi sociali ma quello che è profondamente connaturato al genere umano e quindi universale.
Ne consegue che dovendo procedere trasformando in oggetto visibile e materiale il contenuto di un concetto astratto, si dovrà parlare di reificazione, della creazione di un oggetto con delle caratteristiche proprie date necessariamente dalla sua materialità, un oggetto che non è la copia di qualcos’altro ma è.
È per questo che in ogni mia opera cerco di utilizzare i materiali per le loro caratteristiche peculiari. Ogni materiale ha un suo valore espressivo intrinseco. Capita che mi si chieda con quale materiale lavoro ma questa è una domanda che non può avere risposta. I materiali che uso variano a seconda delle esigenze. Una sottilissima lastra di ottone, ad esempio non ha dimensione, si estende in superficie, ha la proprietà di riflettere la luce come se fosse di luce essa stessa, la sua superfice vagamente riflettente appare di una profondità abissale ma allo stesso tempo la sua struttura è composta da una lega di metalli, la sua essenza non è cedevole ma dura e resistente, se scossa leggermente entra in vibrazione ed emette un suono profondo. Altri materiali, come il legno, provengono dal mondo organico e sono più facilmente deperibili, la pittura ad olio è grassa, plasmabile, adatta ad evocare la carne.
Ogni materiale ha quindi delle caratteristiche proprie che hanno fatto sì che per secoli gli si attribuisse un certo valore espressivo che, a sua volta, si è andato a stratificare connotandolo anche in senso culturale.
ŠZ: Tratti i materiali, ottone, acciaio, canapa, in modo simbolico. Nel tuo lavoro, le sembianze umane o del mondo reale sono rare o stilizzate, eppure il concetto sembra sempre legato a ciò che è più vero nelle nostre vite. La spiritualità intrinseca nelle profondità della nostra carne. Un approccio quasi mistico e spirituale, ma anche freddo e concettuale, visto che le tue installazioni sono sempre molto pulite ed essenziali. La precisione della forma e della sua messa nello spazio preparano in qualche modo la vera essenza a liberarsi?
Come ho già detto, non volendo parlare di un singolo individuo o di gruppi sociali o anche di fatti contingenti, spesso i miei lavori hanno un valore simbolico e quindi la figura umana non può rivelare la fisionomia di un uomo ma presenta l’Uomo.
Mi spiego meglio: l’immagine di un individuo specifico, riconoscibile nei suoi tratti distintivi ci parlano di lui solo. Al contrario nell’immagine indeterminata e non riconoscibile chiunque si può identificare. Nulla di nuovo in questo, la storia dell’arte si divide in ritratti realistici e idealizzati in base all’intento espressivo. Nel tentativo di voler esprimere il concetto dell’immateriale e dell’universale si è sempre raffigurato l’uomo in modo schematico e astratto, che sia un Kouros greco, una Madonna bizantina, un volto tracciato con pochi segni essenziali da Klee.
In realtà nel mio lavoro la lancetta oscilla costantemente tra due opposti: tra la ricerca di uno stato superiore dell’essere e continue cadute, tra l’avvicinarsi ad uno stato di più immateriale coscienza e la durezza della realtà e questo si può vedere anche nelle due installazioni in mostra. Molto spesso la mia intenzione e quella di creare un punto d’incontro tra fisico e metafisico, tra fisico che si astrae e metafisico che si mostra per immagine in una congiunzione che racchiude la totalità dell’essere.
È per questo che, come dici tu, i miei lavori sono sempre “puliti ed essenziali”. È come se la materia ambisse all’immateriale e viceversa. In questo punto di congiunzione si raggiunge un equilibrio, un equilibrio che non è stasi ma il punto di massima tensione, un arresto che racchiude in sé la massima tensione di un’energia generativa. Il coreografo cinquecentesco Domenichino da Piacenza parlava di “Ballata per Fantasmata” per definire l’arresto improvviso, l’attimo carico di tensione in cui il movimento si arresta e prelude il suo riesplodere.
È inevitabile che in questo equilibrio le forme diventino essenziali perché lontane dalle emozioni, dalla furia, dal disequilibrio.
Non essendo un filosofo e nemmeno un mistico il mio percorso prende le mosse da intuizioni personali, sensazioni o aspirazioni supportate da vaghe conoscenze e “dall’intelligenza delle mani” che creano. Possono sembrare concetti astratti ma in realtà, il mio punto di partenza è autobiografico. I miei lavori rispecchiano fedelmente il mio vissuto, il mio percorso di evoluzione e le mie cadute senza mai renderlo esplicito nel tentativo, spero riuscito, di trasformarli in concetti generali.
ŠZ: Nel tuo lavoro usi molto le superfici specchianti che presenti anche in mostra. Riflettere e riflettersi nell’altro sono per te le basi di un qualsiasi tipo di rapporto? Il riflesso è un unico modo per realmente vedere l’essenza dell’altro senza farci del male? I tuoi soggetti hanno bisogno di riflesso per essere visti?
Le superfici specchianti che utilizzo non sono fatte per riflettersi ma per riflettere, riflettere su sé stessi, per guardarsi come dall’esterno.
Spesso nella tradizione lo specchio ha assunto una valenza magica di soglia, un attraversamento in cui l’individuo subisce una vera e propria mutazione in cui abbandona il cosiddetto io esterno per ritrovare la propria vera essenza nascosta, il proprio sé ontologico. Lo specchio è la soglia, quel punto di congiunzione degli opposti di cui dicevo prima.
ŠZ: Anche ‘L’Antropometria dell’Angelo consiste di una finissima lastra d’ottone parzialmente specchiante che sembra quasi immateriale, e mentre cerchiamo il nostro riflesso sulla sua superficie appare un’immagine celestiale, angelica. Come l’hai ottenuta? Come mai la scelta dell’Angelo? Cosa significa riflettere in questo caso?
Ecco, veniamo nel concreto a vedere come tutto questo si tramuta in forma.
Antropometria dell’Angelo è una lastra d’ottone lucida, luminosa, vagamente riflettente e vibrante. Non è uno specchio, non rimanda la nostra immagine, è una soglia sulla quale appare un’immagine antropomorfa con cui entriamo in relazione, un Angelo.
Raramente rendo esplicita la natura autobiografica dei miei lavori ma in questo caso è inevitabile per chiarirne il senso.
L’immagine dell’Angelo è ottenuta imprimendo il corpo della mia compagna sulla superficie della lastra che dopo il contatto con la carne gradualmente si è ossidata. È il suo corpo in tutta la sua fisicità, è il naturale grasso della pelle che, corrompendo la purezza della superficie lucida, rende possibile il manifestarsi della sua immagine trasfigurata e diafana: la carne che si fa luce.
Il riferimento alla figura dell’Angelo ha una motivazione precisa. L’Angelo è spesso associato alla donna, alle sue qualità sublimate ma altrettanto investe una complessità di senso non banale.
L’Angelo non ha sesso.
Quando ho conosciuto Katia ho scoperto molto presto che sin da giovane ha dovuto combattere contro un cancro al seno che, a detta dei medici, l’avrebbe portata a morte certa. Dopo anni di cure quella sentenza è stata smentita. I segni di quella lotta con la morte sono impressi sul suo corpo. Le ovaie, attributo femminile che le avevano consentito di generare la vita, asportate. Del suo seno generoso sono rimaste solo le cicatrici che ne disegnano i contorni sul torace e che sono visibili anche nell’opera. In un certo senso la donna che avevo di fronte era come se non avesse sesso, la sua vittoria sulla morte l’aveva resa un Angelo.
Il suo corpo impresso nella luce della lastra mostra una sagoma antropomorfa senza attributi sessuali e con il petto privo di seni. Il torace scavato, senza uno dei due muscoli pettorali, lascia un vuoto seguito dalla traccia della spalla. L’immagine che ne risulta è ambigua, le spalle sembrano evocare le ali di un Angelo e allo stesso tempo l’iconografia di un Cristo in croce o ancora carne da macello tante volte rappresentata in arte (da Damien Hirst a Rembrandt, da Kounellis a Francis Bacon e Annibale Carracci).
Non so se in queste poche righe sono riuscito a spiegare la complessità che investe questo tema e quanti sono i riferimenti al vissuto personale, alla teologia, all’arte e l’iconografia che si intrecciano e si sovrappongono. Sicuramente ci vorrebbe più spazio e più tempo per chiarire, anche a me stesso, tutti i riverberi di senso di un lavoro che è appena nato ed è nato dal sovrapporsi di anni di ricerca, da un vissuto intimo e profondo.
ŠZ: In quest’opera il riferimento alla storia dell’arte è evidente, esplicitata sia nel titolo che allude alle impronte blu dei corpi femminili di Yves Klein che anche al misticismo delle icone orientali. Fisico e divino che non possono del tutto fondersi?
Nel titolo ho voluto rendere chiaro il riferimento a Klein perché è volutamente esplicito nella forma e nella modalità di realizzazione. D’altra parte quest’opera, con il lavoro di Klein, condivide anche l’intento di congiungere materialità e immaterialità in un’unica immagine. Non starò qui a spiegare quanto ha lui stesso dichiarato sul percorso creativo che l’ha condotto dal realizzare monocromi blu alle antropometrie ma voglio evidenziare come, a mio avviso, ci sia un filo rosso che unisce queste opere al “Grande nudo blu” di Matisse e alla Madonna blu su fondo oro del grande abside della Basilica di Torcello presso Venezia. In tutti questi lavori l’immagine femminile trasfigurata e bidimensionale si staglia su un fondo immateriale (oro o bianco), fisico e metafisico si avvicinano, il bianco del foglio e l’oro del mosaico attraversano la figura blu compenetrandosi.
ŠZ: Inoltre avvicinandoci percepiamo un brusio, un suono di provenienza indefinita. Come il suono cosmico che si è espanso dopo il Big Bang. Quanto è importante la presenza del suono nelle tue opere e come lo usi?
Il suono è l’effetto che si produce dalla vibrazione della lastra d’ottone che entra in vibrazione grazie ad un’onda sonora a bassa frequenza non udibile dall’uomo. Così come non riusciamo a percepire con i sensi l’invisibile così non riusciamo ad udire l’inudibile se non attraverso qualcosa che lo manifesti.
Per vedere il vento dobbiamo osservare gli alberi o l’erba che si muovono.
La vibrazione della lastra, per mezzo delle onde sonore che emette, ci attraversa fisicamente, realmente diventiamo parte di quella vibrazione perché il nostro corpo vibra con lei.
ŠZ: L’installazione Scacco al Re nella seconda sala a prima vista contrasta drasticamente L’antropometria dell’Angelo. I colori sono scuri, terreni, quasi infernali, il grande cubo poggia sul materasso legato con la tecnica di bondage. Guardandolo meglio possiamo intuire che le differenti legature da un lato creano la sagoma del corpo femminile, quasi sofferente. Gli elementi dell’installazione sono costretti in uno spazio ben definito, spesso non sufficiente. Tutto circondato dai quadri con le pitture riflettenti scure che fanno apparire la presenza umana minacciosa e spettrale. Lo spettatore sembra entrare in una grande camera da letto con il letto sbilanciato. Perché questa scelta?
Per spiegare il senso di questa scelta apparentemente incoerente dobbiamo rimanere un attimo sulla figura dell’Angelo che è una figura complessa e non univoca.
Proverò a spiegarmi con l’aiuto delle parole di Massimo Cacciari che con il suo “L’Angelo necessario” mi ha aiutato a chiarire quella che all’inizio era solo un’intuizione.
L’Angelo non rappresenta il principio assoluto ma ne è il messaggero, il tramite. Scrive Cacciari che “quella «intima e durevole metamorfosi del visibile nell’invisibile» […] rappresenta il fine supremo del pellegrinaggio terrestre […]. Esso conferisce all’anima il potere di congiungersi alla Luce non immediatamente, ma attraverso quello specchio che l’Angelo è.” L’Angelo, scrive Cacciari, ci può essere così vicino da riconoscerlo come nostro Alter Ego celeste; l’Angelo visto come sostanza intermedia tra l’elemento perfettamente spirituale dell’anima e la materia corporea.
Ma in questo contatto, in questa vicinanza c’è un movimento biunivoco che può corrompere perché “non attingono più solo «dal loro» gli Angeli: «un po’ dell’essere nostro» si mescola al loro «come per sbaglio». Non se ne accorgono gli Angeli, ma avviene che ai loro tratti qualcosa di incerto si aggiunga, che ha il nostro sapore. […] L’Angelo discende nel nostro esilio; la lotta con lui lo trattiene nel nostro passare – come essa sradica noi da ogni possibile stare, durare, confidare in una madre terra, così impedisce a lui di fare ritorno, di dispiegare le grandi ali. Nel nostro invocarlo-respingerlo, rimane confitto, egli è sospeso è confuso. […] Il gioco di specchi tra terrestre e divino, che il suo logos sembrava rappresentare in armoniose corrispondenze, si rifrange in dissonanze improvvise. Vuoti, casi, imprevisti vi fanno irruzione. La musica dell’Angelo, la musica dell’Angelo quaggiù, quella della lotta cui l’invochiamo, è composta da tali dissonanze. […] La possibilità di questa catastrofe – che l’Angelo, invece di indurre, possa finire sedotto – corre, come un basso continuo, oscura e minacciosa, lungo tutto l’itinerario dell’Angelologia.”
Le riflessioni da fare sono lunghe e complesse ma questo breve accenno ci dimostra che parlare di Angelo ci costringe a dover considerare il suo opposto, l’Angelo caduto.
Nella seconda stanza, l’installazione Scacco al Re rappresenta il contraltare, il buio che scaturisce dalla luce, rappresenta il pericolo della caduta.
Naturalmente tutta la mostra può essere letta su più livelli ma uno dei più espliciti si presenta come la metafora di un rapporto amoroso. L’Angelo della prima stanza è l’emblema della sublimazione dell’amore che eleva l’individuo fino a far raggiungere le vette più alte. L’installazione della seconda stanza denuncia i lati oscuri, il rischio della caduta perché tanto è più intensa la luce tanto più forti possono essere le ombre che si generano.
ŠZ: Il titolo Scacco al Re ci fa pensare ad un gioco di strategia, una ricerca del dominio sull’altro. Sembra che nelle due sale presenti due tipi di rapporto opposti o le due installazioni così diverse sono in realtà i due lati della stessa medaglia? Nelle tue opere luce non esiste senz’ombra, un estremo può esistere solamente per far scoprire l’altro, l’assenza serve alla presenza per mostrarsi? Luce e Ombra alla fine sono la stessa cosa come Eros e Tanatos?
Scacco al Re è collocata nella seconda stanza del percorso espositivo, quella non immediatamente visibile per un preciso valore simbolico. Rappresenta gli aspetti più oscuri di un rapporto. Al suo interno è collocato un parallelepipedo profilato da linee nere che, come un letto a baldacchino, delimita i confini o, meglio, lo spazio destinato alla coppia. Questo volume però evidenzia un vuoto, la struttura non è in equilibrio, è fuori asse, inclinata da un materasso che lo costringe a forza contro il soffitto. Posto al disotto della struttura, come a negare lo spazio preposto all’amore carnale, il materasso è inutilizzabile perché ripiegato e costretto da corde con legature bondage che strizzandolo gli fanno assumere il profilo di una donna.
Contrariamente a quanto si possa pensare le legature bondage non alludono al dominio violento sull’altro ma alla possibilità di affidarsi con fiducia e quindi la possibilità di prendersi cura dell’altro che si affida inerme. In questo caso, l’essere applicate in modo improprio su un materasso, negando lo spazio dell’amore, è il vero atto di violenza perpetrato sulla scacchiera del pavimento diventato testimone di una complessa partita di strategia condotta da Re e Regina.
In conclusione tutta la mostra è l’emblema della complessità dei rapporti che possono far raggiungere vette altissime e cadute vertiginose.