Estratto dall’articolo di Paolo Pianigiani pubblicato sulla rivista on-line Transfinito in occasione della mostra personale dal titolo in-cognito a cura di Lara-Vinca Masini
2005, Limonaia di villa Strozzi, Frenze
Arte in villa
di Paolo Pianigiani
(2.08.2005)
Stefano Tondo ha origini pugliesi e ha studiato all’Accademia di Firenze. Il suo lavoro guarda dentro l’uomo, alla ricerca di aspetti e percorsi che ci toccano da vicino. Ha lavorato nel settore della foto pubblicitaria, è un mago dell’immagine, che conosce a fondo nei suoi valori semantici ed evocativi. E sa usare il linguaggio visivo con ironia e consapevolezza. Come dice Lara-Vinca Masini nel presentarlo, “sembra voler scavare, in un rapporto diretto, fisico, nella profondità della materia come nell’intimità più segreta delle nostre angosce”.
La Limonaia, rielaborata al suo interno da Michelucci, che qui ha forse con troppa attenzione al fine dell’utilizzo, un teatro, sconvolto la struttura pensata dal Poggi, è stata utilizzata da Stefano Tondo come contenitore di un sogno.
Dall’esterno, le grandi finestre e l’architettura che si richiama a forme classiche ti fanno pensare che all’interno troverai spazi infiniti e la luce. Alla fine di un breve percorso, seguendo una passerella sull’acqua di un quasi fossato che circonda la costruzione, ti trovi dentro una piccola saletta bianca davanti a te stesso, figura stupita dentro uno specchio. Appena hai il tempo di riprenderti dalla sorpresa e riconoscerti come immagine, che cominciano ad apparire intorno a te figure evanescenti, che prendono vita dentro il gioco ottico della superficie riflessa. Lo spazio si affonda e diventa a tre dimensioni, va a cercare nuove immagini, che vogliono essere e sono evocazioni, personaggi-icona, non un racconto di persone definite e definibili. Il tuo volto viene a confrontarsi con altri e perdi per un attimo la tua identità.
“Ho sfumato i contorni, volevo creare un incontro con immagini imprecisate, illusioni sfumate”, mi dice Stefano Tondo riflesso accanto a me. “Voglio che chi entra, nella solitudine di un momento, sia portato a riflettere sul proprio io più profondo”.
In un mondo che è sempre più superficie e esteriorità, il lavoro di Stefano ci porta a ritrovare interiorità, ci proietta nelle segrete stanze dell’essere, dove il mistero e il sogno hanno dimora.
Di fronte a lavori di questa intensità, il mestiere di chi li deve raccontare, del critico insomma, vacilla nelle sue basi. Viene in mente una frase di un grande poeta fiorentino quasi sconosciuto ancora, Emanuel Carnevali, che nel suo unico libro, Il primo Dio, sussurra piano:
“I critici sono foglie morte che giacciono immobili, mentre lassù, in alto, infuria l’uragano.”